Milano - ingresso alla stazione - anni '80

Luogo di arrivi e di partenze, di incontri e di abbandoni, di lunghi abbracci tra la calca di gente indifferente e di addii solitari. Luogo di attesa e di passaggio di persone con lo sguardo rivolto verso l’alto, sugli arrivi e sulle partenze dei tabelloni luminosi. Uomini e donne con il loro piccolo mondo rinchiuso nelle valige, nei necessaire stipati nei trolley . Spazio franco dei 'senza dimora', dei drogati, degli alcolizzati, delle prostitute, degli emarginati che sognano di rialzarsi. Individui in fuga, caduti prima del traguardo ed espulsi dalla competizione. Li chiamano 'gli invisibili'. Eppure se un viaggiatore del tempo - mettiamo Louis Daguerre in persona - arrivasse con la sua attrezzatura direttamente dal 1840 e scattasse una foto sull'enorme folla in movimento della stazione, sulla lastra si vedrebbero solo le strutture architettoniche deserte, le scale mobili, le biglietterie, i chioschi. Un paesaggio post atomico. La folla scomparirebbe perché a causa dell'alto tempo di esposizione, non riuscirebbe a lasciare nessuna traccia di sé, e ciò che vedremmo sarebbe solo un enorme e silenzioso spazio vuoto, popolato tutt'al più da fantasmi. Tutto si sarebbe mosso troppo in fretta per essere colto dalla lastra (come accadde al Boulevard du Temple). Ironia della sorte, farebbero eccezione solo loro, gli emarginati, gli invisibili; solo loro verrebbero immortalati su quella lastra, perché solo loro, alla stregua degli oggetti inanimati che li circondano, sono immobili, fermi, distesi a terra e affrancati dal tempo. Si dice che gli immigrati del sud - pugliesi, siciliani, napoletani, calabresi - che in massa si riversarono nel settentrione durante l'esodo del boom economico, non sopportassero l'idea di vivere lontano dalle grandi stazioni delle città di accoglienza, perché solo facendo così restava viva in loro l'illusione del ritorno( ché un tragitto in autobus o in tram troppo lungo avrebbe forse finito per dissuaderli) della fuga improvvisa verso le loro terre, di una porta aperta ai familiari rimasti nei paesi. La stazione era come una mano che protende le lunghe e sottili dita ferrate verso un’ltalia abbandonata, sulle rotte che si diramano via via sempre più fragili e solitarie.

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